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IL DOLORE DI ESSERE DONNA

 

Jabbari

(di Francesca Bianchi)

26 anni e un nome che a livello mondiale è divenuto uno dei simboli della lotta contro la violenza sulle donne: Reyhaneh Jabbari. Si chiamava così la donna impiccata il 25 ottobre in un carcere di Teheran, una donna la cui unica colpa era stata quella di aver reagito a un tentativo di stupro, uccidendo per legittima difesa Morteza Abdolali Sarbandi, l’uomo che voleva violentarla.

In carcere dal 2007, fin da subito è stata sottoposta ad un processo tutt’altro che equo in un Paese in cui la responsabilità di dare il via libera all’esecuzione è lasciata nelle mani della famiglia della vittima.

Uno spiraglio di salvezza le era stato dato dal figlio del suo aggressore a patto che ritrattasse la sua versione dei fatti, ripulendo il nome del padre di lui dalle infamanti accuse. Il suo senso di giustizia e di verità da barattare con la libertà, la corruzione della sua anima ad opera dell’ipocrisia e della menzogna in cambio di un diritto che avrebbe dovuto esserle riconosciuto fin dall’inizio.

Delle più coraggiose la risposta negativa della donna che forse in pochi, al suo posto, avrebbero condiviso. La paura e l’istinto di sopravvivenza sono quelle caratteristiche che solitamente predominano nelle persone e che ogni giorno spingono migliaia di donne a tacere sulle violenze fisiche, psicologiche o carnali che sono costrette a subire da sconosciuti o anche da persone a loro vicine.

Reyhaneh Jabbari e Morteza Abdolali Sarbandi sono due personalità rese note dall’attenzione che il caso ha suscitato a livello internazionale: si conoscono i loro nomi, si conoscono le loro professioni (interior designer lei e ex membro dell’intelligence irariana lui); si conoscono le vicende che li hanno portati a questa macabra notorietà e perfino i parenti che sono stati loro vicini.

Ma chi conosce i nomi, le vite e le vicende delle altre vittime di stupri o di subdoli sistemi giudiziari? Chi si interessa a quelle donne che non hanno una voce così potente quanto quella concessa a Reyhaneh per urlare al mondo le ingiustizie a cui sono sottoposte?

Certo, soprattutto negli ultimi anni i media e l’opinione pubblica si sono avvicinati molto a queste vicende, contribuendo ad accrescerne l’interesse e a sensibilizzare le persone in merito. Ma un interesse puramente teorico poco può fare se non è seguito da una pratica esemplare che ancora scarseggia addirittura nei cosiddetti “Paesi civilizzati”. Infatti, secondo i dati raccolti dall’agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (FRA), un terzo delle donne appartenenti all’UE ha subito una qualsiasi forma di violenza fisica e/o sessuale.

Ma i numeri si fanno ancora più tremendi se si considera il fenomeno a livello globale: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si riscontrano percentuali intorno al 37% sia in Medio Oriente sia nel sud-est asiatico. E queste sono “solo” le donne che hanno subito abusi all’interno di una relazione, senza tener conto delle violenze causate dalle guerre e strumentalizzate per sottomettere popolazioni e civili innocenti.

Ma da quando l’uomo si è fatto bestia, perdendo le connotazioni morali che dovrebbe distinguerlo dagli animali? La risposta è semplice: da sempre, sebbene episodi di secoli antecedenti difficilmente trovino un’adeguata documentazione e sebbene sia errato generalizzare il fenomeno attribuendolo a tutta la sfera maschile.

Ma è mai possibile che nel ventunesimo secolo, l’era del progresso, del benessere, di internet e dei mass media, permangano vicende così agghiaccianti da spingere le donne a temere di essere aggredite in ogni momento, dentro o fuori le mura della propria casa?

Perché sono in pochi a mobilitarsi in concreto nonostante le manifestazioni che riempiono le piazze in nome della giustizia e di un mondo di cui le donne non siano più così facili vittime di abusi?

Sono così tante le notizie che ogni giorno arrivano a noi, notizie di abusi, violenze sessuali e maltrattamenti che possono far credere che sia l’essere una donna il vero problema. Circondati di atrocità, possiamo temere che far parte del “sesso debole” sia una condanna e una fonte costante di dolore. E in alcuni Paesi, come quello in cui viveva Reyhaneh è davvero così.

Ma è sbagliato colpevolizzare le donne, il loro voler giustizia o semplicemente il loro voler vivere la vita normale e tranquilla che meriterebbero.

Per la società è troppo facile puntare il dito contro di loro, ma se la colpa non è del genere femminile, di chi sarebbe in fin dei conti? Solo degli aggressori o anche di un sistema che pare non voler agire correttamente nei confronti dei più deboli?

 

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Mauro Carabelli

Giornalista

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