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Je suis nessuno: quelle stragi dimenticate

stragi

(foto: romagnanoi.it)

Non c’è solo Parigi. Non c’è solo l’occidente. Non c’è solo l’Isis.

(di Rebecca Manzi)

Baga, Nigeria, 3 gennaio: circa 2.000 morti.

Mentre e ancora prima che gli occhi di tutto il mondo fossero puntati sull’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo di Parigi, a Baga succedeva l’inferno. Un inferno dimenticato.

Per giorni e giorni i miliziani jihadisti di Boko Haram radono al suolo un’intera città e i villaggi vicini, dandoli alle fiamme e uccidendo buona parte degli abitanti.

Sana’a, Yemen, 20 marzo: 137 morti.

Durante la tradizionale preghiera del venerdì due attentatori suicidi legati allo Stato Islamico si fanno esplodere all’interno di due moschee a Sana’a, la capitale dello Yemen. Saranno 137 i morti e centinaia i feriti. Anche questa strage viene ignorata dai media occidentali. Non fa notizia.

Garissa, Kenya, 2 aprile: 147 morti.

Tutto succede in un campus universitario, frequentato da ragazzi poco più che maggiorenni.

Guerriglieri del gruppo terroristico islamista di Al-Shabaab entrano nel dormitorio, svegliano gli studenti e, dopo aver chiesto loro la religione professata, uccidono tutti i cristiani presenti.

Questa volta se ne parla, ma poco, molto poco. Su Facebook niente hashtag #jesuisgarissa.

Kobane, Siria, 25 giugno: 146 morti.

120 sono i civili uccisi nelle proprie case, 26 in un villaggio vicino. Ancora una volta dall’Isis.

Ancora una volta non c’è traccia di tutto ciò sui social network, sui giornali e sui telegiornali.

Maiduguri, Nigeria, 20 settembre: 145 morti.

Una serie di attacchi suicidi – attribuibili a Boko Haram – colpiscono un mercato, una moschea e degli spettatori di una partita di calcio, provocando 145 vittime. Ma Boko Haram non è l’Isis.

Boko Haram non colpisce in Europa. Boko Haram non fa paura. La Nigeria non è la Francia.

Sinai, Egitto, 31 ottobre: 224 morti.

Nessun minuto di silenzio per i passeggeri dell’aereo della compagnia aerea russa Metrojet abbattuto da una bomba sistemata sotto il sedile di un passeggero. Nessuno si è salvato.

Di nuovo un attentato rivendicato dall’Isis. Ma i russi non sono cittadini europei come noi?

Beirut, Libano, 12 novembre: 43 morti.

Due attentatori dell’Isis si fanno esplodere davanti a un centro commerciale. Centinaia i feriti.

Già, un giorno prima del tragico 13 novembre di Parigi. Eppure nei TG del pomeriggio e della sera nessuna traccia di questi morti. Nessuna bandiera del Libano. Nessun “safety check” di Facebook per rassicurare amici e parenti sul proprio stato di salute – cosa invece avvenuta dopo le stragi di Parigi.

Bamako, Mali, 20 novembre: 27 morti

E per ultimi i fatti del Mali, dove 170 tra turisti e dipendenti del Radisson Hotel vengono sequestrati da un gruppo di islamici legati a Al-Qaeda. Sono liberati solo quelli che riescono a leggere correttamente alcuni versetti del Corano. 27 verranno uccisi prima dell’intervento delle forze armate. Pochissime le variazioni di palinsesto e le dirette tv sull’accaduto, quasi esclusivamente seguito dalle reti all news. Un solo servizio nei telegiornali, spesso mandato in onda dopo quelli su Parigi.

Queste sono solo alcune delle stragi dimenticate o ignorate da tutto e tutti, tanto che si fatica a trovare il numero effettivo dei deceduti o ricostruzioni esatte delle vicende.

Sono attentati che non colpiscono noi occidentali, forse perché le testate giornalistiche non vogliono che ci colpiscano: i morti del Medio Oriente o dell’Africa non sono nostri morti.

Sono troppo lontani da noi, fisicamente e psicologicamente.

Non serve che il presidente François Hollande annunci davanti alle Camere riunite che “siamo in guerra”. Tanto lì succede tutti i giorni, lì sono in guerra tutti i giorni.

Marc Zuckerberg non ha dato la possibilità a tutti i noi di cambiare la propria foto profilo con lo sfondo della bandiera del Libano, del Kenya, della Nigeria, dello Yemen e nemmeno della Russia.

La commozione maggiore, a ragione, della strage di Parigi è stata per il fatto che 130 persone, perlopiù giovani, sono state uccise mentre mangiavano in un bistrot, scherzavano con gli amici o ascoltavano musica rock.

I 147 studenti trucidati in Kenya solo per la loro fede religiosa, stavano invece semplicemente dormendo in un luogo che avrebbe dovuto portarli verso un futuro migliore, un’università.

Probabilmente avevano la stessa età – o anche meno – dei ragazzi di Parigi, ma su Facebook sono passate solo poche foto e presto tutti ce ne siamo dimenticati. Non se ne è parlato per settimane, come invece sta ancora succedendo per Parigi.

Eppure, tanto odiati e tanto contestati, è proprio dai social che è partita la “protesta” sui morti di serie A e di serie B. Molti giovani si sono attrezzati da soli per diffondere queste notizie.

In un modo forse sbagliato e troppo impulsivo queste idee sono state attuate anche attraverso il gesto di altri studenti, questa volta di Varese.

È accaduto tutto lunedì 16 novembre 2015, giorno in cui tutta Italia – e non solo – commemorava le vittime della follia dell’Isis a Parigi. Anche nelle scuole, con momenti di riflessione e un minuto di silenzio. Minuto di silenzio disertato da alcuni ragazzi dell’Istituto d’istruzione superiore di Daverio proprio per questi motivi. Perché ricordare solo i morti di quel maledetto venerdì 13? Perché non anche quelli di Beirut, avvenuti solo un giorno prima?

La situazione è stata però immediatamente strumentalizzata. I media e la polizia sono andati subito alla ricerca di possibili coinvolgimenti degli studenti con estremisti islamici.

Si diceva infatti che le protagoniste fossero sei ragazze musulmane.

Il caso è finito su tutti i giornali e in tutti i talk show.

Si è scoperto poi che tra quei giovani c’erano anche cittadini italiani e di fedi diverse dall’Islam.

Tutto era più semplice. Il principio in sé non era opinabile.

Bastava solo lasciarli parlare, esprimere la propria giusta opinione e confrontarsi su di essa, invece che scagliarsi contro di loro senza nemmeno sapere le ragioni di tutto questo.

E questo, pochi giorni dopo, hanno fatto.

Centinaia di adolescenti, tutti studenti dell’Istituto coinvolto – su iniziativa dei rappresentati del Daverio – subito dopo la fine delle lezioni sono scesi in strada, si sono presi per mano e hanno abbracciato se stessi e la loro scuola, in un minuto di silenzio in ricordo di tutti i morti, senza distinzione di lingua, età, provenienza e religione.

Questi ragazzi ci hanno dimostrato cosa vuol dire combattere per la libertà di pensiero e ritrovarsi uniti quando si viene attaccati ingiustamente.

Uniti come nemmeno la NATO riesce ad essere in questi momenti così difficili per tutta l’Europa e tutta l’umanità, umanità che prima di salvarla andrebbe ritrovata.

Ci hanno insegnato tutto ciò che dovrebbero imparare gli “adulti”, ma che forse – presi dalla loro rabbia cieca – adulti non saranno mai.

 

 

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Mauro Carabelli

Giornalista

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