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Attacco al cuore dell’Europa, di nuovo

bruxelles

di Rebecca Manzi

130 giorni, come i 130 morti di Parigi.

Sono 130 i giorni che sono passati dal 13 novembre 2015. “L’11 settembre francese”, come è stato da molti ribattezzato. Quel 13 novembre che nessun parigino e nessun europeo mai riuscirà a dimenticare. Speravamo di non dover più piangere morti innocenti, di non dover più raccontare stragi simili. E invece sono passati solo 130 giorni. Altre 34 persone – ma il bilancio è ancora purtroppo in aggiornamento, visti gli oltre 250 feriti, di cui una settantina gravissimi – hanno visto la loro vita spezzarsi per sempre.

La dinamica ormai è chiara a tutti: due attentati a distanza di poco più di un’ora l’uno dall’altro. Il primo all’aeroporto di Bruxelles, con due esplosioni: una vicino ai banchi di accettazioni delle compagnie American Airlines e Brussel Airlines e l’altra vicino ad una caffetteria di Starbucks – al terminal principale. Il secondo alla stazione della metropolitana di Maalbeek, poco distante dalla sede del Parlamento Europeo.

Ancora una volta la rivendicazione è stata dell’Isis. Una strage anticipata di qualche giorno – doveva tenersi a Pasquetta – per vendicare l’arresto di Salah Abdeslam, l’unico che non si era fatto saltare in aria a Parigi. Le indagini proseguono, rivelando dettagli sempre più scioccanti: dagli ordigni non scoppiati a quel progetto di un attentato alle centrali nucleari di Liegi. I blitz e gli arresti si susseguono, mentre ci sarebbero ancora uomini in fuga.

Attacchi ignobili, utilizzando bombe riempite di chiodi. Molte vittime non sono state ancora riconosciute perché letteralmente dilaniate dalle esplosioni. I medici parlano di ferite mai viste, se non in guerra. Si procede unicamente attraverso il DNA. Parecchie sono anche le persone che non risultano rintracciabili, tra cui anche italiani. Ancora una volta la famiglia di una giovane donna italiana, Patricia Rizzo, è disperatamente alla ricerca della loro cara. Un copione che sembra ripetersi come quello di Parigi, con Valeria Solesin. Patricia doveva essere su quella maledetta metro e da quel momento non dà più notizie di sé.

Poi ci sono i video e le storie di chi ce l’ha fatta o di chi non c’è più. Il video agghiacciante dei bambini che urlano spaventati in metropolitana. Quel papà che al check-in in aeroporto porta le bimbe fuori a giocare. Si salveranno, ma non potranno più riabbracciare la loro mamma, rimasta dentro. Oppure Mason, che era alla maratona di Boston, era a Parigi il 13 novembre ed era a Bruxelles il 22 marzo. È rimasto leggermente ferito, ma è vivo, ancora una volta. Poi c’è quell’uomo vittima del destino. Sopravvissuto all’attacco in aeroporto, telefona alla moglie ancora sotto shock e le comunica di essere vivo. Morirà poco dopo in metro.

Sono veramente giorni e mesi difficili e tristi per l’Europa e per il mondo intero. Siamo stati attaccati al cuore, ancora una volta, più volte. Siamo sotto scacco, di nuovo, è questa la verità. Ci hanno in pugno e non sappiamo come vincerli o come uscirne. Cerchiamo di ignorare gli attentati ad Ankara, nel Mali o in Nigeria, ma poi ci riscopriamo fragili anche e soprattutto a casa nostra.

Un pensiero va a tutti coloro i quali non sono tornati o non torneranno a casa dai propri amici e dalle proprie famiglie, che non potranno più riabbracciare. A chi stava andando a scuola, in università, al lavoro o stava partendo per un viaggio che non farà mai più. Siano essi francesi, belgi, turchi, nigeriani, tunisini o di tutto il mondo.

Dobbiamo essere uniti in questo momento e non dimenticare i morti di altri paesi solo perché sono a  migliaia di chilometri da noi. Non dobbiamo pensare che “tanto lì è normale”. Perché tutto questo non è normale, ovunque succeda. Siamo tutti in pericolo, soprattutto finché siamo egoisti e divisi. Siamo tutti fratelli, indipendentemente dal luogo in cui viviamo, dal colore della nostra pelle o dalla religione che professiamo. Siamo tutti umani.

 

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Mauro Carabelli

Giornalista

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