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E corre, corre la locomotiva

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(Immagine dal film “Il ferroviere” di Pietro Germi)

E’ sempre di forte impatto narrativo il film di Pietro Germi  “Il Ferroviere” degli anni ‘50 per l’intreccio di crudo neorealismo del contesto e la piega intimista dei personaggi in corsa lungo i simbolici quanto drammatici e imprevedibili binari della vita e della morte.  Così accade anche in uno dei capolavori di Jean Renoir, “La bête humaine”  (1954) tratto dal romanzo omonimo di Émile Zola, diciassettesimo volume del ciclo dei Rougon-Macquart, dove   il dramma di un amore travolgente e incontrollabile morde i binari con identica prepotenza sulla Lison, una locomotiva, amata da Jacques Lantier quasi fosse una donna. Fino a “A 30 secondi dalla fine” (Runaway Train) del 1985 di Andrej Koncalovskij, interpretato da un memorabile Jon Voight nella parte di un evaso che sogna di rifarsi una vita lungo la veloce e liberatoria corsa del treno, per poi schiantarsi assieme al suo persecutore. Tre metafore, tra tante altre, dove il treno e i suoi manovratori vivono e muoiono a cavallo di passioni infuocate come il ventre pulsante di locomotive e locomotori ormai fuori controllo, rigenerando l’eterno ritorno di quell’immensa energia distruttrice dalla quale non ci si può sottrarre una volta attivata.  E di forza devastante è stracolma la catastrofe ferroviaria di Andria. Ma qui non siamo più nella fiction. Eppure anche nella drammatica realtà dello schianto dei treni, si rivela il destino della tracotanza umana che spinta all’eccesso conduce alla rovina. Come nella rappresentazione simbolica della tragedia greca anche in questa circostanza è sembrata emergere una sorta di Hybris, quell’antefatto di empietà di personaggi senza scrupoli che nel tempo ha determinato, come e poi avvenuto, l’inesorabilità di un destino  tragico.  E mai come in questo caso, la potenza delle macchine e gli errori umani sono stati tanto rovinosi dopo aver messo in fila, su quell’unico binario, troppe vittime innocenti.

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Mauro Carabelli

Giornalista

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