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La perduta giustizia

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(Stampa da Educ)

(mc) Mi sono lasciato alle spalle Parigi e la vergognosa macchina di presentazione delle olimpiadi. Non perché la libidine sfrenata del Dioniso queer, lasciato libero nel rincorrere il desiderio del desiderio, sia orfana dello spirito apollineo lungo cui contenere la cecità  pulsionale e ritrovare quell’equilibrio e quell’armonia che ha regalato proprio alla Francia immense cattedrali.

No, non è per questo, perché alla fine tale carnevalata ebbra e disperata sarà solo un grido nel nulla, già sentito e già visto, nihil sub sole novum, per poi schiantarsi contro la problematicità e il mistero dell’esistenza. E di tutto ciò rimarrà solo polvere comprese le idee e i corpi dei suoi ambigui protagonisti.

Ciò che invece mi preoccupa di più è il tentativo di dissolvere l’asse portante della Legge attorno al quale le menti e i corpi stessi ruotano ed evolvono, si materializzano e si spiritualizzano in opere di bene,  senza essere prevaricati da un’ingiustizia accondiscendente al cospetto della trasversale, volgare e intollerante trasgressione in ogni dove.

Sin dai poemi omerici emerge una fede inconcussa nella Giustizia come fondamento di ogni più alta forma della vita umana. Nel pensiero di Omero, infatti , “dike” era la linea di demarcazione tra la barbarie e la civiltà.

Ma tale linea non dipendeva solo dalla formale applicazione delle norme, soprattutto doveva mantenersi salda assieme all’etica interiore che caratterizzava chi aveva la competenza e l’autorità di emettere giudizi o decisioni definitive. A tal punto che se il giudice avesse trasgredito  al proprio mandato, per interesse personale, debolezza o incapacità, poteva essere punito anche più del reo che aveva processato.

Princìpi che sembrano provenire da un altro mondo.

Se dovessimo mettere in fila gli errori,  i pregiudizi, l’orientamento correntizio e il calcolo politico, che pare stia contaminando  una parte  della magistratura  del nostro Paese, dovremmo concludere che anche i  giudici possono errare  tanto quanto l’ultimo degli uomini che dovrebbero correggere.

Nemmeno le riforme correttive, in procinto di essere varate dall’attuale Governo, sempre che resista,  potranno emendare in profondità tale situazione. Troppo compromessa  è la struttura lungo la quale la giustizia viene amministrata. Ed è una struttura composta da uomini e donne che scelgono.

Fu così che la “Iustitia”, stanca dei misfatti degli uomini mortali tra i quali viveva e dai quali rischiava di essere contaminata, ad un certo punto, come ci ricorda lo scrittore romano Igino (64 a.C.),  non poté resistere oltre, tanto da trasferirsi in cielo e rimanervi come un’idea luminosa ma irraggiungibile, “Itaque iam non potuisse pati amplius et ad sidera evolasse”. Perduta per sempre.

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Mauro Carabelli

Giornalista

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