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Chi ha paura di Nino Di Matteo?

DI MATTEO

(Foto da: ilfattoquotidiano.it)

IL MAGISTRATO OSPITE D’ECCEZIONE ALL’INSUBRIA

(di Manzi Rebecca)

Un’emozionante standing ovation e lunghi minuti di applausi accolgono nell’Aula Magna di Via Ravasi il Pubblico Ministero Antonino Di Matteo.

Un magistrato scomodo, come scomode sono le sue indagini. Scomode perché senza paura e senza timore vanno a colpire anche i cosiddetti “poteri forti” dello Stato.

La strage di Capaci, in cui il 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta saltarono in aria sull’autostrada A29 e quella di Via D’Amelio, in cui nemmeno due mesi dopo, il 19 luglio dello stesso anno, l’amico Paolo Borsellino e cinque membri della sua scorta persero la vita. La “presunta” – che stando a quanto è emerso dall’incontro tanto “presunta” non è – trattativa Stato-Mafia.

Sono solo alcune delle istruttorie che Nino Di Matteo sta seguendo insieme al pool di Palermo.

Non un lavoro semplice il suo, ma soprattutto non una vita semplice. Da oltre vent’anni vive sotto scorta e sotto minacce che col tempo sono diventati veri e propri ordini di morte.

Il PM è ostacolato nel compimento delle sue indagini, delegittimato e volutamente lasciato solo da quello Stato che invece dovrebbe proteggerlo.

Lasciato solo come lo erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Carlo Dalla Chiesa e tanti altri. Isolati dallo Stato e poi, e proprio per questo, uccisi dalla mafia.

Ciò che emerge dall’evento, organizzato sabato 5 dicembre 2015 dall’Università degli Studi dell’Insubria in collaborazione con il Movimento delle Agende Rosse “Paolo Borsellino e Giovanni Falcone”, è infatti il momento di grande difficoltà che sta affrontando il PM Di Matteo.

Tuttavia, come ha affermato lo stesso Sostituto Procuratore di Palermo, sono giornate come queste e un’aula stracolma di persone che hanno visto e vissuto quei tristi giorni della storia italiana, ma anche di tanti giovani, che lo stimolano a continuare.

A caratterizzare l’incontro – dal titolo “Chi ha paura di Nino di Matteo?” che ha visto protagonisti, oltre a Di Matteo, i professori Antonio Orecchia, docente di Storia Contemporanea dell’Insubria, Fabio Minazzi, Presidente del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, il moderatore Roberto Rossetti (laureato in Storia Contemporanea e autore del libro “Paolo Borsellino: un eroe semplice”), ma soprattutto il fondatore delle Agende Rosse nonché fratello di Paolo Borsellino, Salvatore Borsellino – è stato anche un altro tema che ha fatto da filo conduttore a tutti gli interventi: la denuncia.

Una denuncia chiara e precisa verso quella parte dello Stato e della politica volutamente complice di Cosa Nostra. I mafiosi, secondo il PM, sono consapevoli che senza quei rapporti con il potere non sarebbero nulla, è per questo motivo che sono state vinte molte battaglie, ma non la guerra.

Per questo silenzio vergognoso, vigliacco e servizievole anche dell’informazione verso la politica, nonostante essa – se fosse svolta con onestà – avrebbe tutte le carte in regola per sbattere la porta in faccia ai mafiosi. Perché le uniche cose che ci possono salvare sono l’onestà e la memoria.

Memoria”. Un’altra parola ricorrente durante l’intero pomeriggio.

Un paese senza memoria è un paese senza futuro e il nostro, purtroppo, non coltiva il senso della memoria. Preferiamo non ricordare, non vogliamo ricordare le tante atrocità che hanno caratterizzato la nostra storia e così facendo le si legittima e si fa sì che continuino.

Eppure per non perdere la speranza nel futuro  non dobbiamo dimenticare il passato.

Quando la parola è passata a Salvatore Borsellino i toni si sono fatti più forti e accesi.

Egli ha messo in evidenza il suo stato d’animo spesso scostante, diviso tra la voglia di combattere e lo sconforto che a volte lo assale, come quando ha deciso 45 anni fa di andar via dalla Sicilia per allontanarsi da tutto quello che lo feriva, decisione opposta rispetto a quella che ha preso il fratello.

Anche a Paolo Palermo non piaceva, ma proprio per questo ha imparato ad amarla e questo suo attaccamento gli è costato la vita.

Un’invettiva molto decisa quella di Salvatore, che ha affermato che la trattativa Stato-Mafia ha sì salvato molte vite a politici corrotti e senza scrupoli, ma l’ha tolta a suo fratello.

Questo perché molto probabilmente il giudice aveva scoperto gli “indicibili accordi” che avrebbero poi portato alla stagione stragista del 1992-93 e si era messo di traverso ad essi.

Borsellino, come del resto tutti i ragazzi della sua scorta – ricordati, insieme a quelli che oggi proteggono tanti altri magistrati tra cui anche Di Matteo, con un intenso e spontaneo applauso – sapeva di andare a morire lottando contro tutto questo.

È amara la riflessione del fondatore di Agende Rosse: quasi sicuramente non sapremo mai le conclusioni a cui era giunto Paolo. La sua agenda rossa, in cui raccoglieva tutti i suoi appunti e da cui prende il nome il Movimento, sparì insieme con la sua valigetta dopo la strage di via D’Amelio. La borsa venne ritrovata distrutta poche ore dopo, mentre dell’agenda non si trovò più alcuna traccia. Sull’autore di questo gesto, un carabiniere fotografato durante la sottrazione, è stato aperto un processo che però non è mai arrivato alla fase dibattimentale.

All’inizio della giornata è stata posta una domanda al pubblico in sala: perché scegliere un’università per trattare un tema così complesso come la mafia?

A conclusione si può affermare questo: perché il futuro siamo noi giovani, la responsabilità di come sarà il mondo è nostra, nostra e dei professori che nelle scuole e nelle università cercano di insegnarci tutti quei valori che dovrebbero caratterizzare la vita di tutti noi e che queste “persone” non sanno nemmeno lontanamente cosa siano. È una rivoluzione culturale deve partire dal basso e da un cambiamento di mentalità, perfino nell’omertà che c’è nelle piccole cose.

Dobbiamo dimostrare a Nino Di Matteo che si sta sbagliando: non ci stiamo rassegnando che le cose in Italia vadano così, perché così non deve essere e perché noi ci impegneremo a cambiarle.

Non deve più succedere che una persona – come Di Matteo – che dovrebbe difendere i cittadini, trovi in un’aula universitaria cittadini che vorrebbero difenderlo a tutti i costi, ma che si sentono frustrati e impotenti di fronte a questa situazione, in cui uno Stato non solo non lo accompagna in questo difficile cammino, ma lo isola.

Un incontro a tratti toccante che è servito a tutti noi per ricordarci che la mafia non avrà vinto finché ci sarà anche solo una persona che lotterà contro di essa. 

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Mauro Carabelli

Giornalista

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